«Qual è il tuo scopo nella vita?». «Divertirmi, e poi crepare».
Max e Flora è un romanzo insolito innanzitutto per la sua storia editoriale che ved«Qual è il tuo scopo nella vita?». «Divertirmi, e poi crepare».
Max e Flora è un romanzo insolito innanzitutto per la sua storia editoriale che vede la luce nel 1972 con una pubblicazione a puntate su un giornale yiddish di New York e, in secondo luogo, per il soggetto stesso della storia, ossia la vita di alcuni ebrei malavitosi nel primo novecento.
Max e Flora sono una coppia di coniugi appena arrivati a Varsavia da Buenos Aires dove hanno aperto una fabbrica di borsette o, perlomeno, questa è la versione ufficiale. In realtà, i due oltre agli affari legali si occupano di procurare ragazze per un bordello argentino. Nel perfetto stile parvenu si dilettano nello sfoggiare soldi, gioielli e alloggiano nel miglior hotel della città:
”Chi avrebbe mai detto che lui, Mottele il Bastardo, un giorno sarebbe diventato ricco, e avrebbe posseduto immobili e negozi a Buenos Aires? Che avrebbe avuto una bella moglie, un’ex attrice, e sarebbe sceso all’Hotel Bristol? Tutto questo lo aveva ottenuto perché mentre gli altri bevevano, giocavano a carte, truffavano qualche povera venditrice del mercato per pochi spiccioli o vivevano alle spalle di una puttana di via Smocza, lui usava il cervello. Ridessero pure, quei pezzenti: ride bene chi ride ultimo. E dov’erano oggi, quei furbetti? La maggior parte di loro marciva in galera o crepava di fame.”
Una coppia in completa sintonia così come i cari amici che vanno a trovare: Meir e Leah. Meir, detto Panna Acida è il re di via Krochmalna. Un ricettatore e falsario largamente noto. Leah, la moglie un’ex prostituta.
Il titolo originale The Visitors rende meglio l’idea di questi due viaggiatori che sembrano saldi nel loro amore tranne sgretolarsi con un nonnulla. L’incontro con una ragazzina di quattordici anni rivela l’essenza di Max e da quel momento il romanzo è tutto Max e poco Flora.
Max che ancora prima della svolta dice che le donne «sono state create,per servire gli uomini, di giorno e di notte» è uno dei personaggi più abietti della letteratura.
La storia in sé innervosisce e si ritorce contro se stessa immergendosi nella follia del protagonista che credendo di essere colui che inganna scopre all’improvviso di essere un ingenuo..
La forza di queste pagine, secondo me, sta semplicemente nelle descrizioni ambientali di una Varsavia pre-sovietica
A quell’ora la strada era ancora deserta ma i tram circolavano già, gremiti di gente che andava al lavoro. Max aveva sentito dire che in Russia nel 1905 i manifestanti avevano annunciato che avrebbero spodestato lo zar, e che i lavoratori sarebbero andati al potere. Ma non se n’era fatto niente. Lo zar era ancora lo zar e gli operai continuavano a sudare nelle fabbriche e a vivere negli scantinati. E se anche lo zar fosse stato cacciato e la Russia fosse diventata una repubblica, ci sarebbe sempre stato chi poteva permettersi di scendere in quell’albergo di lusso, e chi sarebbe andato in giro coi calzoni laceri e lo stomaco vuoto. Max inspirò profondamente. L’aria sapeva di foglie, di erba, di alberi in fiore che spargevano i loro petali. Una brezza fresca soffiava dall’altra sponda della Vistola, o forse anche da Wola, portando con sé l’odore dei campi e dei frutteti. "
«Come è bella la Rivoluzione, anche nella sua innegabile barbarie!»
Pubblicato nel 1915, Quelli di sotto (Los de abajo) è l’opera più famosa del m«Come è bella la Rivoluzione, anche nella sua innegabile barbarie!»
Pubblicato nel 1915, Quelli di sotto (Los de abajo) è l’opera più famosa del messicano Mariano Azuela. Medico e scrittore, Azuela, riversa in questo breve romanzo la sua stessa esperienza alla causa rivoluzionaria a cui partecipò come medico di campo.
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Con atmosfere da film western , il romanzo segue la torma scalcinata di rivoluzionari capeggiati da Demetrio Macias, un allevatore di bestiame che reagisce ai soprusi dell’esercito imbracciando le armi. Al gruppo si unisce una figura differente: Luigi Cervantes (alter ego dello stesso Azuela), medico e giornalista, che diventa ben presto il braccio destro del capo.
Se i federali sono accusati di razziare e stuprare, ben presto, i rivoluzionari non saranno da meno.
Ecco che l’opera quindi rivela la disillusione che – seppur non intaccando la fede in una giustizia sociale- vede gli uomini con lenti diverse e spogliati dal mito…
«..La rivoluzione è la tempesta, e l’uomo che si dà ad essa non è più un uomo, diventa la miserabile foglia secca trascinata dalla bufera…»...more
”Io ero quella che ero e dovevo essere quella che ero e nient’altro.”
Adriana lo sa. Sua madre non fa altro che ripeterglielo; giorno dopo giorno f”Io ero quella che ero e dovevo essere quella che ero e nient’altro.”
Adriana lo sa. Sua madre non fa altro che ripeterglielo; giorno dopo giorno finchè l’immagine riflessa allo specchio le conferma questa verità: ”A sedici anni ero una vera bellezza”.
Il corpo: la sua arma, la sua ricchezza di cui si servirà dopo amare delusioni che le faranno abbandonare il sogno borghese di un matrimonio, dei bambini ed una semplice casetta in provincia.
[image] Gina Lollobrigida interpreta La Romana ( 1954- Regia di Luigi Zampa)
Pubblicato nel 1947 ed ambientato durante la Guerra d’Etiopia (una decina di anni prima), il romanzo si muove tra il mondo dei sogni e delle speranze di una giovane ragazza nata in povertà e l’amara realtà da affrontare.
”Avevo capito che la mia forza non era di desiderare di essere quello che non ero, ma di accettare quello che ero. La mia forza erano la povertà, il mio mestiere, la mamma, la mia brutta casa, i miei vestiti modesti, le mie umili origini, le mie disgrazie e, più intimamente, quel sentimento che mi faceva accettare tutte queste cose e che era profondamente riposto nel mio animo come una pietra preziosa dentro la terra.”
Le convenzioni, la morale sono solo costruzioni adatte a chi può permetterselo e Adriana farà sue le parole della madre quando inveisce così:
”È morale forse sfacchinare tutto il santo giorno, lavar piatti, cucire, cucinare, stirare, spazzare, strofinare pavimenti e poi, alla sera, vedersi arrivare il marito stanco morto che appena mangiato va a letto, si volta verso il muro e se la dorme?... Questo è morale eh? Sacrificarsi, non avere mai un momento di respiro, diventare vecchi e brutti, crepare, questo è morale eh?... Ma sapete che cosa vi dico? Che non si vive che una volta sola e, dopo morti, buonanotte... che ve ne potete andare al diavolo voi e la vostra morale...”
Chi parla e racconta è la stessa Adriana, anni dopo, riflettendo su ciò che è stato e soprattutto sugli incontri che così tanto hanno determinato la sua vita
”Oggi mi domando se allora fossi felice. In certo senso lo ero, perché desideravo fortemente una cosa e questa cosa ritenevo prossima e possibile. Poi ho appreso che la vera infelicità viene quando non si hanno più speranze; e non giova allora star bene e non aver bisogno di nulla.”
Tutto comincia con Sergej Nečaev (1847- 1872), uno studente rivoluzionario che sviluppa un comportamento manipolatorio nei confronti dDèmoni e Demòni
Tutto comincia con Sergej Nečaev (1847- 1872), uno studente rivoluzionario che sviluppa un comportamento manipolatorio nei confronti degli affiliati al suo gruppo arrivando all' omicidio che diede luogo ad un processo politico di grande risonanza. Dostoevskij prese la palla al balzo Da tempo nutriva l'ambizione di creare un'opera che evidenziasse i pericoli del radicalismo e dell' estremismo forse anche per riabilitare la sua immagine dopo i trascorsi che lo avevano portato ad essere imprigionato in Siberia.
Mette quindi in scena questi Demòni facendosi ispirare da quel passo del Vangelo di San Luca (8:30-33):
” C'era là un branco numeroso di porci che pascolava sul monte; e i demòni lo pregarono di permetter loro di entrare in quelli. Ed egli lo permise. I demòni, usciti da quell'uomo, entrarono nei porci; e quel branco si gettò a precipizio giú nel lago e affogò.”
Sono quindi uomini infestati da idee pericolose che minano la stabilità dello stato conservatore.
Non che Dostoevskij non avesse idee di giustizia sociale ma la sua Russia non poteva allontanarsi dai dogmi della Chiesa Ortodossa che invece questi demòni ambiscono a distruggere e assieme ad uno Status Quo minano l’anima stessa russa: la spiritualità.
” Parlavano di ateismo e naturalmente liquidavano Dio. Erano contenti, gridavano. A proposito, Šatov assicura che se in Russia si vuole fare una rivolta, bisogna assolutamente cominciare dall'ateismo.”
In quest'ottica, mi aspettavo una narrazione severa ed invece, inaspettatamente, e con mio piacere, il tono è farsesco.
Nella (lentaaa) prima parte troviamo un vero e proprio climax proprio su questi toni: partiamo dalla presentazione di Stepan per arrivare all’apoteosi nell’ultimo capitolo della prima parte dove colpi di scena e schiaffi si susseguono proprio come fosse la chiusura del primo atto di una commedia.
La carrellata di personaggi è veramente nutrita. Non ci stancheremo mai di dire quanta fatica facciamo a districarci con ogni patronimico, secondo il quale ogni volta lo stesso personaggio ci sembra un altro! In ogni caso, quello che mi pare è che tutti siano eccessivi e bisognosi di qualche seduta dall’analista...
Stepan con quel suo bisogno di infarcire il dialogo parlando in francese per ostentare il suo ruolo occidentale e pseudo intellettuale, salvo poi essere un fallimento umano (soprattutto come padre!) e la nobildonna Varvara che lo tratta come una suola di scarpe.
Poi c’è Nikolas Stavrogin una figura ambigua, enigmatica. Così bello ma anche così strano come se possedesse una doppia anima.
Al centro (come ho già detto, di una miriade di altri personaggi) troviamo il subdolo Petr (il figlio di Stepan) che ricalca proprio la figura di quel Nečaev balzato alle cronache del tempo.
Dopo una seconda parte ricca di colpi di scena, il ritmo si fa serrato avviandosi verso un’ineluttabile conclusione ma non prima di aver sottolineato quanto la forza di un popolo (russo) sia insita nella sua spiritualità dato che lo scopo è stato, e sarà sempre, quello della ricerca di Dio.
Dostoevskij lascia a bocca aperta per la sua lungimiranza quando prospetta l’evolversi di alcuni radicalismi :
"Egli propone come soluzione finale del problema la divisione dell'umanità in due parti diseguali. Una decima parte riceve la libertà personale e un diritto illimitato sugli altri nove decimi. Questi invece devono perdere la loro personalità.."
e poi:
"Approva lo spionaggio. Ogni membro della società vigila l'altro ed è obbligato alla delazione. Ognuno appartiene a tutti e tutti appartengono a ognuno. Tutto sono schiavi e nella schiavitù sono uguali. Nei casi estremi, c'è la calunnia e l'omicidio, ma l'essenziale è l'uguaglianza"
La trama principale che segue le mosse dei, cosiddetti, cospiratori è una vera e propria ragnatela di trame parallele e sottotrame.
Ogni personaggi messo in scena ha uno spessore in 3D che porta a sorridere come, ad esempio, nel caso del Karmazinov il grande signore , (...)vanitoso e viziato signore uno scrittore ridicolizzato e che sbeffeggia il padre del nichilismo Ivan Turgenev verso cui non nasconde il suo disprezzo.
Il sorriso poi, però, si spegne in altre pagine dove incombono temi e fatti truci e così ai dèmoni evangelici si affiancano veri e propri demòni che compiono azioni efferate al di là di ogni credo politico..
"... Ci sono dei delitti veramente brutti. I delitti, comunque siano, quanto più è il sangue, quanto più è l'orrore, tanto più sono suggestivi, per così dire pittoreschi, ma ci sono delitti vergognosi, ignominiosi, al di là di ogni orrore, dei delitti, per così dire fin troppo non eleganti."
"Ahimè, il mio gruzzolo, il mio povero gruzzolo! il mio amico più caro!"
Andata in scena per la prima volta a al Palais-Royal di Parigi il 9 settem"Ahimè, il mio gruzzolo, il mio povero gruzzolo! il mio amico più caro!"
Andata in scena per la prima volta a al Palais-Royal di Parigi il 9 settembre 1668, la piéce de L'Avaro (in cinque atti) è tra le più rappresentate al mondo con sfumature differenti che vanno a favore a volte più della rappresentazione drammatica ed altre di quella più comica.
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Arpagone (deriva dal greco arpax, arpagos – “rapace” – e poi dal latino harpago, harpagonis, che significa al contempo “uncino” e “ladro”) è un ricco vedovo noto per la sua estrema avarizia.
La storia prende l’avvio da un momento di debolezza del protagonista e cosa se non l’amore può far vacillare un uomo? La passione per una ragazzina di nome Marianna fa perdere la bussola ad Arpagone ma per rimediare al fatto che questa non può permettersi una dote combina due matrimoni proficui per Elisa e Cleante i suoi due figli che, tuttavia, hanno altri programmi...
La forza del testo sta nel doppio che gioca non solo sulla atmosfere tragiche / farsesche ma sul duplice ruolo che ogni personaggio stesso interpreta perché l’intrigo si compia.
Una doppiezza chiara nel sottotitolo dell’opera, ossia: École du mensonge (Scuola della menzogna.) Tutti mentono tranne, per l’appunto Arpagone che rimane fedele al suo vero amore: l’avere. La vera sorpresa, per me, leggendo questo famoso testo della letteratura classica teatrale francese, è scoprire quanto Arpagone sia l’unico personaggio trasparente.
ARPAGONE (grida “al ladro” dal giardino ed entra senza cappello) Al ladro! al ladro! all’assassino! all’omicida! Giustizia, giusto Cielo! sono perduto, mi hanno assassinato, mi hanno tagliato la gola, mi hanno rubato i miei soldi. Chi può essere stato? Che fine ha fatto? Dov’è? Dove si nasconde? Come fare a trovarlo? Dove correre? Dove non correre? Non è qui? Non è lì? Chi è là? Fermati. Ridammi i miei soldi, mascalzone… (Prende se stesso per un braccio) Ah! sono io....more
”Lei era diversa e i suoi figli sarebbero stati diversi
Scovato nel mercatino dove ciclicamente torno a spulciare, attratta dal titolo particolare ”Lei era diversa e i suoi figli sarebbero stati diversi
Scovato nel mercatino dove ciclicamente torno a spulciare, attratta dal titolo particolare e, ancor di più, dal nome sconosciuto dell’autrice, mi sono subito immersa in una scrittura spiritosa, frizzante, coinvolgente (non capisco chi commenta dicendo il contrario ma, in ogni caso, evviva, il pensiero libero!)
Tutto mi aspettavo da questo libro meno che questo. Avendo inteso che Emecheta raccontasse la sua vita da migrante che dalla Nigeria l’ha portata nel Regno Unito, scioccamente mi aspettavo dei toni malinconici. E invece..
Adah's Story (titolo originale) inizia con un sogno.
E’ il sogno di un bambina che, nonostante nasca e cresca in una famiglia umile, è consapevole che l’istruzione può essere lo strumento per liberarsi. Per riuscire ad andare a scuola – privilegio riservato al solo fratello maschio- Adah imbroglia, mente, fugge. In una confusione di credenze religiose e superstizioni ciò che sembra rimanere fermo e saldo è il rigido sistema patriarcale che la protagonista volge a suo favore. Si sposa per poter continuare a studiare (una ragazza non può andare a vivere da sola) e riesce poi a convincere la famiglia del marito (che una volta sposata diventa il perno di ogni decisione della coppia) che convenga emigrare in Inghilterra. Lei, infatti, lavorando come bibliotecaria, è quella che porta a casa i soldi e può permettere al marito di continuare gli studi.
Quando arriva nel Regno Unito, sono gli anni ’60 e Adah ha soli vent’anni e già due figli. Il percorso di inserimento nella società inglese è travagliato così come quello di un matrimonio sbagliato.
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La sua ironia scoppiettante riempie le pagine di una vita tutt’altro che facile soprattutto quando si ritrova a toccare il fondo: sola, con cinque figli, costretta a lasciare il lavoro e nelle mani dei servizi sociali. Sarà proprio la scoperta della solidarietà tra chi sta ai margini a darle la forza per rialzarsi.
Un racconto che esplora a 360° Il mondo delle relazioni tra uomo- donna, bianco-nero- povero- ricco, istruito- ignorante. Una gamma di emozioni accompagnano una giovane donna nera, africana, madre, moglie che cerca di sbrogliare la matassa delle difficoltà sociali attraverso la conoscenza e la scrittura.
”Devi sapere mia cara giovane signora che a Lagos puoi anche far parte della macchina propagandistica degli americani, puoi guadagnare un milione di sterline al giorno (..) ma il giorno in cui metti piedi in Inghilterra sei una cittadina di seconda classe..” ...more
Fisionomie, amori, giuramenti, dispiaceri e per finire “così va il mondo”. In mezzo un cugino bellissimo. Di quella bellezza che Il mestiere dell’avaro
Fisionomie, amori, giuramenti, dispiaceri e per finire “così va il mondo”. In mezzo un cugino bellissimo. Di quella bellezza che solo i parigini sembrano avere: un’aurea da intoccabili adoni, plateali don Giovanni che nonostante la sfrontata ricerca di una rendita cospicua vengono perdonati ed accolti.
Un incipit così, vi basta per farvi capire da subito dove vi state andando a caccciare?
” In alcune città di provincia si trovano delle case la cui vista ispira una malinconia pari a quella che destano i chiostri più tetri, le lande più brulle e le rovine più tristi. Forse in queste case sono presenti allo stesso tempo il silenzio del chiostro, l’aridità delle lande e l’ossatura delle rovine: la vita e il movimento sono così placidi che uno straniero le potrebbe credere disabitate, se all’improvviso non incontrasse lo sguardo spento e freddo di una persona immobile la cui figura per metà monastica si affacci dal davanzale della finestra, al rumore di un passo sconosciuto. Questi principi di malinconia sono presenti nella fisionomia di una casa situata a Saumur,
Saumur, per l’appunto è il luogo dove si svolge questa storia.
Qui abita Grandet, vignaiolo arricchito e di un’avarizia leggendaria a cui moglie, figlia e serva sono sottomesse giorno dopo giorno in stanze buie, fredde e con il cibo contato.
Una storia talmente tragica da sembrare comica nel solco di quella grande discrepanza tra vita di provincia, fatta di risparmi, e i tentacoli della Parigi avida e corruttrice.
I due poli si muovono ai loro estremi: da un lato l’ossessione di accumulare l’oro, dall’altro quella di spendere e spandere il più possibile.
Un gioco degli eccessi a cui la giovane Eugénie si sottomette con una spiazzante ingenuità:
”Non c’è una delle sue felicità che non provenga dall’ignoranza.”
Forse il cugino Charles sarà colui che la farà aprire gli occhi?
Sono convinta che molti (non tutti) nascono con uno scopo. Balzac è nato per lasciarci questa meraviglia..
”Nella pura e monotona vita delle fanciulle giunge un’ora deliziosa in cui il sole diffonde i propri raggi nella loro anima, dove il fiore esprime loro dei pensieri, e le palpitazioni del cuore comunicano al cervello la loro calda potenza fecondatrice, e fondono le idee in un vago desiderio; giorno d’innocente malinconia e di soavi gioie! Quando i bambini cominciano a vedere sorridono, quando una fanciulla intravede il sentimento della natura, sorride come sorrideva da bambina. Se la luce è il primo amore della vita, l’amore non è la luce del cuore? Per Eugénie era giunto il momento di vedere con chiarezza le cose di questo mondo. “
Venti componimenti (di cui circa sette li avevo già letti neIl libro della follia) che ci restituiscono perfetta"Ero stanca di essere una donna.."
Venti componimenti (di cui circa sette li avevo già letti neIl libro della follia) che ci restituiscono perfettamente la complessità di quest'autrice: profana e poi attenta alla spiritualità (sono le produzioni degli ultimi periodi); riflessiva ed impulsiva..
Apre la raccolta “Come lei” del 1960.
Mi colpisce perché Sexton mi riporta a qualcosa a cui ho spesso pensato: come doveva sentirsi una donna che in altre epoche non riusciva a stare negli schemi?
Sexton usa l’immagine della strega per collegare lo stato di solitudine in cui le donne comunque sono state storicamente relegate. Sia che partecipino alla recita sociale sia che non lo facciano, in ogni caso si è una donna incompresa.
Dal momento in cui si nega ad una persona la possibilità di essere se stessa incomincia un dramma. Una tragedia che dalla nascita ha colpito le donne a cui erano affidati copioni scritti da mani maschili e a cui non ci si poteva sottrarre se non pagando la pena dell’esclusione.
Così la strega della poesia vola sulle case di notte, osserva da lontano le altrui vite, si nasconde in caverne che riscalda con il suo amore, fino al momento in cui sarà messa al rogo: ” Una donna così non si vergogna di morire. Sono stata come lei.
Segue: Suonare le campane” in cui si sofferma sul ricordo dell’attività musicale nella clinica psichiatrica*:
” Suonano le campane a *Bedlam e questa è la signora delle campane che viene tutti i martedì mattina per darci una lezione di musica e perché gli assistenti ci fanno andare e perché ci importa per istinto, come api intrappolate nell’alveare sbagliato, siamo il circolo delle pazze che siedono nella sala della clinica psichiatrica e sorridono alla donna sorridente che passa a ciascuna una campanella,”
Il terzo componimento è titolato: ”Lettera scritta sul ferry mentre attraversavo lo stretto di Long Island” con un attacco ad effetto:
” Mi stupisce vedere che l'oceano è ancora qui ora me ne sto andando e ho strappato la mia mano dalla tua mano come avevo detto e ce l’ho fatta fin qui come avevo detto e sono sul ponte ora stringendo il mio portafoglio, le mie sigarette e le chiavi dell’auto alle due di un martedì di agosto del 1960”
Quarta poesia: In compagnia degli angeli
Ero stanca di essere una donna, stanca di cucchiai e pentole, stanca della mia bocca e dei miei seni, stanca di trucchi e sete. Alla mia tavola c'erano ancora uomini seduti, raccolti intorno alla coppa che offrivo. La coppa era piena di chicchi d'uva viola e vi ronzavano attorno mosche per l’odore e anche mio padre giunse col suo osso bianco. io però ero stanca del genere delle cose.
La notte scorsa ho fatto un sogno e gli ho detto... “Tu sei la risposta. Tu sopravvivrai a mio marito e a mio padre”. Nel sogno c'era una città di catene dove Giovanna fu messa a morte in abiti maschili e la natura degli angeli non era spiegata, non c'erano due della stessa specie, chi col naso, chi con l’orecchio in mano, ognuno obbediente a se stesso come un poema, facendo le veci di Dio, un popolo differente.
“Tu sei la risposta”, dissi, ed entrai, sdraiata alle porte della città. Poi fui messa in catene e persi il mio genere e l’aspetto finale. Adamo era alla mia sinistra, Eva era alla mia destra, entrambi in contrasto con il mondo razionale. Intrecciamo le braccia e cavalcammo sotto il sole. Non ero più donna, né una cosa né l'altra.
O figlie di Gerusalemme, il re mi ha condotto nelle sue stanze. Sono nera e bella, Sono stata aperta e spogliata. Non ho né braccia né gambe. Sono tutta pelle come un pesce. Non sono più donna di quanto Gesù fosse uomo.”
” C’erano due mariti scontenti delle uova. In quel modo non piacciono neanche a me, dissi. Fatevele da soli. Loro sospirarono all’unisono. Uno era livido; uno era pallido. Qui non c’è neanche niente da bere, vero?, domandò Livido. Ma quando mai, disse Pallido. Non stare a cercare; ’sta casa è un deserto. Spinse via le uova, disgusto e dolore il suo blasone. Livido disse: No, ma davvero non c’è niente? Una birra?, speranzoso. Niente, disse Pallido, che aveva già passato in rassegna dispense, armadietti e frigoriferi in cerca di una camicia bianca.
Credo nella diaspora, non solo come fatto ma come concetto. Sono contro Israele per motivi tecnici. Sono alquanto delusa che abbia deciso di diventare una nazione proprio nel corso della mia vita. Nella diaspora ci credo: tutto sommato, gli ebrei sono il popolo eletto. È inutile che ridi, è vero. Ma quando s’accalcano tutti insieme in un angolino di deserto diventano uguali a tutti gli altri: francesi, italiani, nazionalità terrene. Gli ebrei hanno un’unica speranza – restare un rimasuglio nel retrobottega degli affari mondiali – no, volevo dire un’altra cosa – una scheggia nell’alluce della civiltà, una vittima che pesi sulle coscienze. Livido e Pallido rimasero attoniti davanti al mio sfogo, giacché di rado mi esprimo su argomenti seri e mi limito invece a vivere il mio destino, che è quello di essere, fino alla data di scadenza, la ridicola serva del maschio.”
Il quinto componimento è Voglia di morire” in cui la tendenza al suicidio non solo è cosa innata (” Nati morti, non sempre muoiono) ma un canto delle sirene(” abbagliati, non possono dimenticare una droga così dolce”) al cui richiamo all’improvviso si risponde:
” In equilibrio lì, i suicidi a volte si incontrano, infuriati per il frutto di una luna pompata, lasciando il pane che hanno scambiato per un bacio, lasciando la pagina del libro aperta con noncuranza, qualcosa di non detto, il telefono fuori gancio e l'amore qualunque cosa fosse, un'infezione. “
Seguono alcune poesie passionali, dedicate all’amante di turno come “Per il mio amore che torna da sua moglie” (”Ti ridò indietro il tuo cuore/ ti do il permesso” e poi ”Lei è la somma di te stesso (…) Invece io, sono un acquarello/vengo lavata via”) oppure A piedi nudi ("Amami senza scarpe").
Altre che richiamano l'esperienza psichiatrica come in Cosa è successo, Dr Y (”A vivere sono fuori allenamento”)
Bellissima Il silenzio:
"La mia stanza è imbiancata, bianca come una stazione di polizia di campagna e altrettanto silenziosa; più bianca di ossa di pollo sbiadite alla luce lunare, pura spazzatura e altrettanto silenziosa. C’è una statua bianca dietro di me e piante bianche che crescono come vergini oscene, e tirano fuori le lingue gommose ma non dicono niente. I miei capelli sono cupi. Bruciati nel fuoco bianco e carbonizzati. Anche le mie perle sono nere, venti occhi vomitanti dal vulcano, veramente contorte. Sto riempiendo la stanza con le parole che escono dalla penna. La mia penna perde parole come aborti. Lancio parole nell’aria e tornano al balzo come palle da squash. Eppure c’è silenzio. Sempre silenzio. Come un’enorme bocca di neonato. . Il silenzio è morte. Ogni giorno arriva come un trauma si appoggia sulla mia spalla, uccello bianco, e becca gli occhi neri e il rosso muscolo vibrante della mia bocca."
Le poesie dedicate al padre (già lette ne Il libro della follia) le trovo anche nella rilettura abbastanza disturbanti (si accennano fatti incestuosi) così come non ho empatizzato con i versi più religiosi.
"Umanità vanitosa, che, non potendo della virtù, ti glorii del vizio!"
Il primo impatto con questa novella non è dei migliori. Questione di lingua. Voc"Umanità vanitosa, che, non potendo della virtù, ti glorii del vizio!"
Il primo impatto con questa novella non è dei migliori. Questione di lingua. Vocaboli desueti, pesanti, che sanno di polvere. Tanta polvere da faticare a trovare la linea narrativa.
L’idea di base è geniale per l’epoca (1874) in cui lo scapigliato Carlo Dossi la scrisse.
In breve: un gruppo di prigionieri, eterogeneo per varietà di crimini, sbarca su un' isola deserta. Lo Stato, rappresentato lì da alcuni soldati di scorta, declama l’inaspettata pena a cui sono condannati. Dato che nella società civile hanno dimostrato disprezzo per le leggi ora resteranno nell’isola da soli. Gli viene lasciato un carico di animali e viveri per i primi tempi, dopo di ché, sono abbandonati a loro stessi.
Storditi dalla novità e dalla repentina libertà, il gruppo non tarda a far emergere le personalità forti. Due sono i leader che si propongono: da un lato Gualdo, detto il Beccaio, il più impulsivo, dall’altro, Aronne, detto il Letterato e quindi il più intellettuale. Si creano dunque due gruppi: il Leone e la Volpe.
Un esperimento sociale interessante di per sé ma deludente – per quanto mi riguarda- nel suo evolversi. Ovviamente uno specchio del suo tempo(view spoiler)[ (l’idea che le donne sono roba da spartire combinando matrimoni attraverso bigliettini da pescare è roba che fa accapponare la pelle!) (hide spoiler)]ma è nella morale proprio che mi cadono le braccia.
(view spoiler)[Una volta che i gruppi ferini sfogano la loro naturale aggressività si pacificano ricostituendo la sacralità dello Stato (con leggi che- per assurdo- sono ancora più dure di quelle che hanno lasciato) e della Famiglia trasferendo questo alle nuove generazioni che testimonieranno il ritorno sulla retta via guadagnandosi il ritorno in Patria. (hide spoiler)]
Insomma, sicuramente innovativo come approccio ad un pensiero revisionista nei confronti della reale efficacia delle riabilitazioni in carcere ma al contempo troppo intriso nel linguaggio e nei risvolti di ideali oggi illeggibili.
Un assaggio:
PRELUDIO LA CONDANNA
Stàvano i deportati - una quarantina - uòmini e donne, sulla nuova spiaggia tra le cataste di roba e le pacìfiche forme degli agnelli e de’ buòi; stàvano, chi in piedi in una èbete immobilità, chi a terra accosciato, le palme alla faccia; tutti affranti da un viaggio lunghìssimo col non sequente ànimo e dal dubbio della lor meta, dubbio peggiore della più amara certezza, e dalla brama cupa, senza speranza, della vendetta. Il aldo tramonto parèa si scolorasse nel pallor dei lor visi, o dai delitti di passione affilati, o fatti ottusi da que’ di abitùdine. Nè i cìnici motti di alcuno, nè i lazzi èran sollievo alla morale afa. Dall’ira non si figlia la gioja. Nascèano e spegnèvansi insieme, scintille senza pastura..."...more
Alla seconda silloge di Anne Sexton mi rendo poco che so veramente troppo poco di lei. So che è nata i”Trafficare con le parole mi tiene sveglia.”
Alla seconda silloge di Anne Sexton mi rendo poco che so veramente troppo poco di lei. So che è nata in una famiglia agiata ma da cui non ha ricevuto amore. So che di lei si è occupata la zia zitella Anna, detta Nana. So che ha un certo punto della sua vita (credo ancora adolescente) qualcosa si è interrotto. E’ successo qualcosa oppure in lei c’era già un malessere?
Mai come nella poesia c’è bisogno di avere questo tipo di risposte e, in particolar modo, quando i componimenti vengono definiti “confessionali”. Vero che si può comunque inventare ma più di tanto non credo ci possa allontanare dalle proprie esperienze. Io la penso così.
Leggendo queste pagine, quindi, so che mi sono sfuggite molte cose. Qualcosa ha spiegato in post fazione la traduttrice ma molto altro credo proprio di non averlo afferrato.
La raccolta è suddivisa in quattro sezioni poetiche:
1. Trenta poesie 2. Morte dei padri 3. Angeli degli affari di cuori 4. Carte di Gesù Più tre brevissimi racconti in prosa
A parte, la svolta religiosa delle ultime poesie l’unico filo che trovo sempre presente è quello della morte (facendo una ricerca la parola “morte” ritorna 41 volte!).
Nell’insieme, però, le atmosfere surreali unite sicuramente ad una musicalità molto più significativa in originale piuttosto che tradotta mi lasciano un po’ con l’amaro in bocca.
Non è mai bello non comprendere appieno: è come essere invitati ad una festa e, poi, ignorati da tutti, rimanere in un angolo ad ascoltare discorsi che cerchiamo di ricomporre con piccoli indizi.
E allora spero di essere invitata un’altra volta. Tornerò preparata perché so che ne vale la pena...
>”prima era il pannolino che avevo/addosso sporco e mia /madre mi odiava per questo e io/mi amavo per questo ma l’odio/vinceva, no?, certo, e il disprezzo/ vinceva e il disgusto vinceva e per/ questo io sono un’accumulatrice di parole /le tengo dentro anche se sono/ sterco oh Dio sono una che scava /non sono un’oziosa /vero? ...more
Spiazzata. Disorientata. Confusa. Cosa ho letto?"...il mare rombava come un treno in retromarcia
e i segreti trapelavano da ogni finestra
come il gas."
Spiazzata. Disorientata. Confusa. Cosa ho letto? Poesia? Prosa? Riscrittura di favole?
Non riesco a giudicare e ad uniformare il mio pensiero su pagine che non avrei dovuto leggere ma ascoltare.
Avevo letto che nel 1973 questa raccolta si trasformò in un’opera da camera commissionata dalla Minnesota Opera Company a Conrad Susa. Ora capisco. Trasformazioni..
Queste pagine devono aver voce (quella giusta) per poter entrare in sintonia con un ritmo lontano dalla metrica che ci si aspetterebbe. D’altro canto Anne Sexton fu rivoluzionaria e, direi, che questo testo non ne smentisce la fama.
Fiabe dunque. Diciassette per l’esattezza. Perlopiù note e presentate nella truce versione originale non edulcorata per il pubblico infantile.
Ogni fiaba è preannunciata da versi che ne sottolineano il tema.
Ad esempio “Tremotino” (Rumpelstiltskin) attacca così:
”Dentro molti di noi c’è un omino vecchio che vuole uscire. Non è più grande di un duenne, potresti chiamarlo costoletta d’agnello se non fosse che è vecchio e deforme. La testa è a posto ma il resto non è stato sanforizzato. È un mostro di disperazione. È la Decadenza. Parla con la vocetta di un auricolare che veicola la voce asessuata di Truman: Sono il tuo nano. Sono il nemico del fronte interno. Sono il padrone dei tuoi sogni. No, non sono la Legge interiore, il nonno di Avvedutezza. Sono la legge delle tue membra, consanguineo di Nerezza e Impulso. Vedi, ti trema la mano. Non è una paralisi, né l’alcool. È il tuo Doppio che prova a uscire. Attenzione... Attenzione...”
Lettura veramente..particolare. Piena di sarcasmo che alle mie orecchie ha un ché di amaro.
Interessante la nota finale della traduttrice (Rosaria Lo Russo) che, oltre a spiegarci il perché abbia liberamente attualizzato ed italianizzato alcuni riferimenti (ad eseempio il “Tonight show” diventa il "Maurizio Costanzo Show"), inquadra il testo e mi conferma quello che ho sospettato durante tutta la lettura ma non avrei saputo tradurre in parole:
”La scrittura si fa francamente, spudoratamente, monologica, il verso liberissimo di sguinzagliare il virtuosismo metaphor mad su cui l’autrice aveva costruito la sua intonazione precipua, il suo stile irresistibile. “...more
«Ma la vita non è fatta quasi unicamente di dettagli eccezionali? »
Roger Martin Du Gard, scrittore francese, premio Nobel nel 1937 e perlopiù, al pu «Ma la vita non è fatta quasi unicamente di dettagli eccezionali? »
Roger Martin Du Gard, scrittore francese, premio Nobel nel 1937 e perlopiù, al pubblico italiano, misconosciuto pubblicò il racconto Confessione africana nel 1931.
Chi non subisce l’attrazione per i segreti? [image] «Devo dirti una cosa ma promettimi che non lo dirai a nessuno!» Quante volte ci siamo trovati (da una parte o dall’altra) in questa situazione?
Dato che uno scrittore attinge sempre (deve!) dal suo vissuto, il Du Gard personaggio/scrittore non mantiene la promessa, anzi ne fa un racconto che spedisce al suo editore.
Quale sia questa confessione non lo dirò neanche nascondendolo (io mantengo le promesse!) ma ne parlerò lo stesso.
Veramente poche pagine che rivelano una grande penna. La cesellatura con cui costruisce le atmosfere e lo spessore dei personaggi sono la forza assieme certamente alla torbida storia che parte proprio parlando di letteratura.
Du Gard fa amicizia infatti con Leandro (nome fittizio) proprietario di una libreria in Algeria. Conversando a proposito di ”.. un recente articolo del « Temps » che accusa i giovani romanzieri americani di affrontare per puro capriccio argomenti « scabrosi » e del tutto « inverosimili», Leandro si dimostra indispettito da chi ritiene che la vita vera non sia piena di eventi simili.
Inizia quindi un racconto. Nulla di riportato ma qualcosa accaduto a lui stesso, qualcosa che non aveva mai confessato a nessuno..
”Tacque. E tutta la storia, quella sera, sotto quel bel cielo notturno, pareva in effetti così semplice che non ho trovato niente da dirgli.” ...more
Un libro che scopro veramente per caso in una delle mie tante ricerche di testi dimenticati. Forse ho aspettato troppo a leggerlo così che le mie aspetUn libro che scopro veramente per caso in una delle mie tante ricerche di testi dimenticati. Forse ho aspettato troppo a leggerlo così che le mie aspettative sono lievitate sgonfiandosi di colpo durante la lettura che si è rivelata faticosa e –ahimè- noiosa. Mi vergogno un po’ mentre scrivo perché come posso permettermi di annoiarmi di fronte al racconto di vite disgraziate? Ma partiamo dall’inizio.
Danilo Montaldi – militante di sinistra ed intellettuale soprattutto interessato a studi storiografici e sociologici- nel 1961 pubblica quest’opera particolare in quanto i protagonisti raccontano le loro vite ma lo fanno in una modalità , direi, “parlata”. Come se si trattasse di un dialogo tra amici ci fanno conoscere i luoghi dove sono nati, le famiglie (quando ci sono) e soprattutto le difficoltà della gente a i margini perché «la leggèra» si riferisce alla malavita padana soprattutto quella nata e cresciuta attorno al fiume. Sono racconti che divagano, si attorcigliano e si ripetono proprio come si trattasse di una conversazione al bar.
Montaldi antepone un’introduzione lunghissima e, sinceramente, al limite della mia comprensione perché infarcita di quelle modalità proprie dell’esposizioni politiche e dogmatiche. Così c’è questa discrepanza abissale tra le due parti dell’opera basate proprio sul linguaggio intellettuale dell’autore (probabilmente per dare forza e valore al testo) e la sgrammaticata chiacchierata dei protagonisti.
Attraversiamo il Novecento in un territorio – la Bassa Padana - che è un vero e proprio microcosmo dove pullulano uomini e donne che per sopravvivere fanno di tutto. Esistenze avventurose ma non per scelta.
Si parte da Orlando P. che nel 1938, confinato all’isola di Ponza racconta la sua storia fatta di mille mestieri finchè caduto una volta nel bisogno di rubare entra in carcere dove inizia la vera e propria formazione alla vita criminale. Così accade a Teuta, a Poveri Romeo e il Bigoncia: vite senza redenzione. Sembra fare eccezione l’ultima protagonista: la Cicci, prostituta per fame che riesce dopo alcuni anni a cambiar vita.
Interessante ma faticoso.
” Questo è il lamento di un uomo che grida vendetta alla società perché verso di me fu ingiusta e anche verso mio nonno e mio padre loro non avevano la capacità di descriverla la sua lunga odissea della vita pensai io a metterla in luce e lasciarla in eredità alle nuove generazioni perché se ne facciano un concetto di quello che avviene nella società è solo l’oro che fa commettere gli errori verso quella parola che si chiama legge.” Orlando P.
Un po’ di musica Le leggera
La ballata di Mackie Messer (canta Milva)
"Faceva il palo" (nella banda dell'Ortica) (Enzo Jannacci)
Ho comprato questo libro ad un mercatino senza sapere che La Fille Aux Yeux D'Or non è un racconto a sé stante ma l’ultimo dei tre raccEros e Thanatos
Ho comprato questo libro ad un mercatino senza sapere che La Fille Aux Yeux D'Or non è un racconto a sé stante ma l’ultimo dei tre raccolti ne La storia dei tredici (“Scene di vita parigina”).
Un progetto interessante in cui, HdB introduce tredici personaggi ricorrenti nelle tre novelle. Sono persone molto differenti come classe sociale, ideali ecc, ma che hanno stretto una sorta di alleanza per cui si aiutano a vicenda nel momento del bisogno.
La fanciulla dagli occhi d'oro può essere letto come racconto autonomo ma – alla luce di questo progetto narrativo- perde sicuramente molta della sua forza.
Il libro è diviso in tre capitoli.
Il primo (Fisionomie parigine) presenta Parigi che come una bolgia infernale è popolata da terribili esseri:
” Basteranno poche parole per giustificare fisiologicamente il colore quasi infernale delle facce dei parigini, perché non è soltanto scherzosamente che Parigi è stata chiamata un inferno1. È una definizione che va presa sul serio. A Parigi tutto è fumo, fuoco, tutto brilla, bolle, s’arroventa, svapora. In nessun altro luogo la vita è così ardente e così bruciante. Questa sostanza sociale sempre a temperatura di fusione sembra esclamare, appena terminato un lavoro: «Al prossimo!», così come lo dice la natura.”
Seguono pagine in cui ogni categoria sociale - proletari ai nobili- viene presentata senza pietà. Ambizione, sete di denaro sono le forze che spingono e sospingono le classi sociali in una città così grandiosa da essere contenitore di forze opposte.
Gli altri due capitoli (”Una fortuna straordinaria” e la ”La forza del sangue”) entrano nel vivo della storia.
Protagonista principale è un bellissimo dandy: Henri de Marsay (personaggio che ritorna ne “Le illusioni perdute”).
Abituato ad ottenere tutto ci che desidera, si incaponisce nella conquista di una bellissima ragazza dagli occhi d’oro. Non facile parlarle né tanto meno avvicinarla. Gli stratagemmi per un appuntamento sono audaci e de Marsay si troverà coinvolto ben presto in una torbida storia..
Come sempre una meravigliosa penna di Balzac ma credo che “La storia dei tredici” debba essere letta nella sua completezza per cogliere un significa complessivo più soddisfacente.
” Paquita gli sembrò preoccupata da qualcosa che non era lui stesso, come una donna sotto gli impulsi della passione o del rimorso. Forse nel suo cuore era presente un altro amore che ogni tanto le tornava alla memoria. Henri fu assalito da mille pensieri contraddittorii. La fanciulla diventò per lui un mistero; ma, contemplandola con l’attenzione sagace dell’uomo esperto, desideroso di nuovi piaceri, come quel re d’Oriente, il quale voleva che s’inventasse per lui una voluttà nuova, orribile sete da cui son presi gli animi forti.”
Fuori il caos di una città sudata e frenetica, dentro la serena penombra e l’aria fresca generata da un piccolo ventilatore. Siam Singapore, anni ’20.
Fuori il caos di una città sudata e frenetica, dentro la serena penombra e l’aria fresca generata da un piccolo ventilatore. Siamo nell’ufficio dell’ avvocato Joyce.
Una scena alquanto pacata apre questa breve storia. Uno sguardo sui libri di giurisprudenza posati sugli scaffali, un leggero tocco alla porta che introduce Ong Chi Seng, l’impiegato cinese che parla un inglese impeccabile e annuncia l’arrivo di un cliente, Robert Crosbie. Da qualche giorno sua moglie dimora nelle patrie galere di Singapore e lui non si da pace. Si dà il caso che la signora abbia freddato con sei colpi un vicino della loro piantagione, Geoffrey Hammond.
” Singapore è luogo d’incontro di cento popoli” ma, come ben sappiamo, chi arriva da occidente ha sempre una corsia preferenziale su cui viaggiare.
Leslie Crosbie ha davvero sparato per legittima difesa? Allora perché scrivere quelle frasi nella lettera che viene poi ritrovata?
Un racconto fulmineo che tratteggia egregiamente i personaggi in scena poggiandosi su una trama, in realtà, di poca sostanza.
«Il fatto è, suppongo,» rifletté «che non si può mai dire quali istinti selvaggi si celino nella donna più rispettabile del mondo»....more
“Storia della follia nell'età classica “(1961) è la tesi di dottorato di Michel Foucalt. Aspettarsi un testo divulgativo ed accessibile a tutti è del t “Storia della follia nell'età classica “(1961) è la tesi di dottorato di Michel Foucalt. Aspettarsi un testo divulgativo ed accessibile a tutti è del tutto errato, ragion per cui, l’aver proposto questo testo al Gruppo di Lettura della Sfida dei Classici è stato un vero e proprio azzardo.
Confesso di essere entrata tra queste pagine in modo spavaldo salvo ricredermi da subito perché ho dovuto fare questa lettura in determinati momenti della giornata in cui ero completamente da sola per potermi concentrare sui molti passaggi contorti. Sì lo so non è invitante ma non posso mentire a riguardo.
Così come non posso ammettere di aver subito anche il fascino di queste pagine. Come ha detto Judith Revel al Festival della Filosofia dello scorso anno: «Un libro affascinante ma difficile da afferrare».
Ho ventiquattro pagine di appunti scritti a penna. In alcuni passaggi, scorgo un certo nervosismo: punti esclamativi e innumerevoli punti interrogativi; note ai margini che chiedono aiuto ma anche piccoli schemi che cercano di ordinare i miei pensieri vaganti.
Tutto questo personale preambolo per dire che mi è impossibile riassumere questa lettura.
Quello che posso fare è tratteggiarne un nucleo, ossia quello di voler tracciare l’evoluzione dello sguardo sociale nei confronti del folle: dal Medioevo alla fine dell’età classica.
Non una storia della psichiatria ma della follia stessa da un’epoca in cui ragione e follia non erano separati dalla società con un dialogo mediato dalla figura del medico.
”Il linguaggio della psichiatria, che è monologo della ragione sopra la follia, non ha potuto stabilirsi se non sopra tale silenzio. Non ho voluto fare la storia di questo linguaggio; piuttosto l’archeologia di questo silenzio.”
Follia o Non Follia dipendono da uno sguardo ( e fin qui ci siamo) e lo sguardo da cui si parte è quello Medioevale che partendo dal concetto di espiazione (la colpa di essere malati è dei folli come dei lebbrosi) ne fa una lettura morale che considera quasi un favore isolare coloro che ne sono affetti.
Sarà proprio l’arte (letteraria e figurativa) a cambiare i termini di giudizio:
” Nelle farse e nelle soties il personaggio del Folle, del Grullo, o dello Sciocco, prende sempre maggiore importanza. Non è più soltanto la sagoma ridicola e familiare che resta ai margini: occupa il centro del teatro, come colui che detiene la verità.”
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France Verbeek, Il commercio di stolti o il ridicolo della follia umana, XVI secolo
Una verità ricca di simboli, allusioni, metafore esistenziali di cui il Folle sembra esserne il custode. C’è un sovraccarico di significati che avvicina le follie ai sogni.
Per capirci: quando sogniamo la ragione si dissolve. Non ci sono limiti fisici, temporali e tutto ciò che durante la veglia è razionale. Succedono cose che quando ci svegliamo vogliamo interpretare come fossero dei moniti su ciò che ci sta accadendo o dovrà accadere. Questo era l’atteggiamento verso il folle e la follia.
L’immagine del demente è quella, pertanto, di un custode di un sapere inaccessibile a chi vive di puro raziocinio. Questo sapere, tuttavia, nel tempo diventa sempre più qualcosa che dovrà essere punito.
Nel 1656 nasce l’Hôpital général, a Parigi. Non un manicomio come lo intendiamo oggi ma neppure un istituto medico. Si tratta di un primo ricovero che si allargherà mano a mano a varie regioni francesi per decollare poi in altre nazioni europee.
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Francisco Goya, La casa dei matti, 1808/1812, olio su tavola, cm 45×72, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid
Sono luoghi, questi, che rispecchiano una nuova sensibilità sociale condivisa che porta ad internare soggetti molto differenti tra loro ma che hanno come comune denominatore la povertà.
La miseria è cresciuta tantissimo e diventa una minaccia dell’ordine pubblico. Nella mentalità borghese tra XVII° e XVIII° secolo, il lavoro è un dovere sociale e l’ozio un segno di rivolta oltre che un peccato morale. Chi mendica si trova così a condividere l’internamento assieme ai folli e il cammino sarà lungo: dalle prime classificazioni di alienazione (secondo le quali quasi la totalità degli odierni abitanti del pianeta terra dovrebbero essere rinchiusi!) alla sperimentazione di medicamenti che nulla hanno a che fare con la farmacopea come la intendiamo noi proprio perché lo sguardo non è ancora medico ma ancora morale.
Interessante il bivio a cui si arriva distinguendo la follia giuridica da quella sociale. La prima sentenzia la perdita di diritti, la nomina di un curatore e quindi l’assegnazione nelle mani di Altri. La seconda è la condanna sociale in seguito a comportamenti scandalosi per cui si viene colpevolizzati e, in questo caso, il soggetto diventa l’Altro, l’Escluso.
Come dicevo, la strada è lunga e passa attraverso salassi, infusi, tisane, docce e/o bagni freddi e/o caldi, inoculazioni di cose tremende come la rogna per i maniaci (sic!).
Si può attingere a piene mani per scrivere un horror fatto a dovere anche perché alla base c’è l’idea che il folle non sia una persona da proteggere, anzi, probabilmente non è neppure una persona, infatti, pensano che non senta niente ergo gli si può fare di tutto.
La coscienza della follia segue un percorso frammentario che vi risparmio. Basterà dire che Foucault denomina queste forme di coscienza come “irriducibili” (sono quattro: coscienza critica, pratica,enunciativa ed analitica) autonome e, al tempo stesso solidali nel riconoscere la sragione, ossia ” cioè il rovescio semplice, immediato della ragione; questa forma vuota, senza contenuto né valore, puramente negativa, in cui non troviamo che la traccia di una ragione che è appena sfuggita ma che resta sempre per la sragione la ragione d’essere ciò che essa è.”
Insomma, è folle chi non usa la ragione. Ciò è visibile dalle parole, dalle azioni o semplicemente dallo sguardo.
L’età classica reputa la follia una malattia degli organi del cervello ma rimane legata a considerazioni più morali che organiche.
La lettura introduce elenchi, classificazioni e quant’altro esponga le idee circolanti riguardo origini, cause ed rimedi alla follia.
Riguardo alla storia dell’internamento bisogna arrivare alla fine del ‘700 perché si inizi un po’ a scremare isolando i folli in luoghi appositi.
Un piccolo seme che dovrà aspettare ancora molto tempo perché germogli con la nascita dei manicomi veri e propri. Quello che nel tempo cambia è lo sguardo: il folle non è più (solo) un problema di ordine pubblico, un osceno essere da nascondere perché dà scandalo ma un individuo che deve trovare il suo spazio per ritrovare se stesso.
Il percorso delineato da Foucault ci parla quindi di nuove prospettive ma, ancora una volta, ci troviamo di fronte ad una storia di predominio dove qualcuno dice non solo come deve comportarti ma anche chi sei.
”… nell’esperienza classica, la sua follia può essere nello stesso tempo un po’ criminale, un po’ simulata, un po’ immorale e, anche, un po’ ragionevole. Non si tratta di una confusione nel pensiero o di un grado minore di elaborazione; non è che l’effetto logico di una struttura assai coerente: la follia è possibile solo a partire da un momento lontanissimo ma necessario in cui si strappa a se stessa nello spazio libero della sua non-verità costituendosi con ciò stesso come verità.”
” Una cosa che succede quando scrivi un libro è che tieni la morte al suo posto; l'ideale è continuare ininterrottamente a scrivere. “
In una Brook” Una cosa che succede quando scrivi un libro è che tieni la morte al suo posto; l'ideale è continuare ininterrottamente a scrivere. “
In una Brooklyn in piena trasformazione edilizia, uno dopo l’altro si sbriciolano palazzi del primo novecento per far posto a nuove abitazioni che significano altri soldi per gli speculatori. Non è così per Levenspiel, proprietario di un condominio che proprio non riesce a tirar giù. L’ostacolo è umano ed ha un nome e cognome: Harry Lesser.
Forte di un contratto che lo difende da ogni sfratto, Harry è l’ultimo inquilino rimasto. Fa lo scrittore e si rifiuta di lasciare l’appartamento finchè non avrà terminato il suo libro: una creatura che ha in gestazione da ben dieci anni.
Tutto sembra procedere con un’assodata routine finchè un giorno tornando dall’alimentari sente echeggiare nei corridoi un ticchettio familiare: il battere sui tasti di una macchina da scrivere. Scopre subito che, in uno degli appartamenti abbandonati, uno scrittore afroamericano sta scrivendo il suo romanzo, il suo nome è Willie Spearmint...
Ecco che l’intreccio della storia inizia ad inerpicarsi su una spirale metaforica e metaletteraria.
Innanzitutto le dicotomie della scrittura: Willie che trasporta sulla carta tutte le brutture della sua vita di afroamericano povero nel paese in cui è nato e cresciuto ma che lo tratta come nemico. Scrive pagine che “puzzano”; un odore di marcio scaturito da tutta la violenza rappresentata e dalla rabbia che lo scrittore cova verso il mondo bianco.
La scrittura è per entrambi salvezza. Mentre per Willie è la sublimazione dell’odio razziale, per Harry, invece, la scrittura diventa una nicchia dove travestire la propria capacità di amare inventando un ”personaggio che in un certo senso amerà per lui, e in un certo senso lo amerà; come dire, poiché le parole salgono e scendono in tutte le direzioni, che in questo libro lo scrittore di Lesser, creando l'amore meglio che può, portandolo alla luce con l'immaginazione, espanderà il proprio io e il proprio spirito; e così con un po' di fortuna potrà amare la sua ragazza reale come vorrebbe amarla, e qualunque altro essere umano in un mondo folle..”
Un destino non facile quello della scrittore: spesso non compreso e, soprattutto, dilaniato da un continuo tormento.
Quarto romanzo che leggo di Malamud: uno più bello dell’altro per me.
Consigliato a chi ama riflettere sulla letteratura e la sua annosa lotta tra forma e contenuto.
” La casa è dov'è il mio libro. Davanti al cadente edificio dipinto di scuro - una volta una casa decente, ora la casa di piacere di Lesser, era lui che la animava - c'era un solitario bidone ammaccato che conteneva quasi esclusivamente la sua spazzatura, migliaia di urlanti parole strappate e torsoli di mela marci, fondi di caffè e gusci d'uovo, un bidone di spazzatura letteraria, rifiuti del linguaggio diventati linguaggio dei rifiuti.”
“...per una prosa ricca ed intensa, che con la pietà trattenuta forma una visione mutevole della vulnerabilità dell'uomo”
Questo il nocciolo della “...per una prosa ricca ed intensa, che con la pietà trattenuta forma una visione mutevole della vulnerabilità dell'uomo”
Questo il nocciolo della motivazione per cui allo scrittore Camilo José Cela (1916-2002), nel 1989, venne assegnato il Premio Nobel della Letteratura.
A distanza di parecchi anni, è il secondo romanzo che leggo di questo autore e posso dire di aver ritrovato questa ricchezza nella prosa così come mi ritrovo nella rimarcare questa tematica della vulnerabilità dell’Uomo (ma non chiedetemi cosa s'intenda per "pietà trattenuta"!).
Pubblicato a Buenos Aires nel 1951 dopo la censura in patria, L'alveare (“La colmena”) è un romanzo con una coralità espressa ai massimi livelli.
Partendo da Doña Rosa – matrona e padrona del Caffè da cui prende avvio il romanzo- ho contato la bellezza di trentadue personaggi fermandomi ad una certa perchè sono tanti di più.
Dunque, si parte:
”«Non facciamo confusione, ormai sono stufa di dirlo, è la sola cosa che importi». Doña Rosa va e viene fra i tavoli del Caffè, urtando i clienti con il suo enorme sedere. Doña Rosa dice spesso «cacchio» e «siamo fottuti». Per lei, il mondo è il suo Caffè e, attorno al suo Caffè, tutto il resto...”
La pletora di personaggi che anima il Caffè di doña Rosa e quelli che mano a mano incontriamo, rispecchia la spaccatura sociale degli anni raccontati, ossia quelli dove la seconda Guerra Mondiale incendia l’Europa e non solo. La Spagna non partecipa ma rinsalda il regime franchista che risente comunque delle disastrose conseguenze economiche mondiali. Lo scenario del Caffè sembra un palcoscenico dove l’occhio di bue illumina a rotazione questi disparati personaggi. Dal nobile decaduto e squattrinato che ostenta e padroneggia valendosi solo dei titoli, alla signorina Elvira che passa le giornate leggendo romanzi e andando al Caffè sperando di trovare qualcuno che la salvi dalla miseria. E poi c’è Martín Marco, scrittore e poeta perennemente squattrinato.
E’ un romanzo in cui notiamo innanzitutto il continuo movimento fisico che si scontra con la paralisi culture del Paese.
Se il Caffé sembra un palcoscenico su cui alcuni personaggi si presentano, aperte le porte cominciamo seguirli per le strade fin negli interni domestici dove scopriamo legami che restringono la capitale tanto da ammettere:
"«E dire che Madrid è così grande!». Julita continua a parlare. «Oh, è un fazzoletto..."
Veniamo a conoscenza di segreti e i ritratti si accumulano restituendo un quadro composito dove le voci si sovrappongono formando un brulichìo proprio come in un alveare..
"Il mattino avanza, a poco a poco, insinuandosi come un verme nel cuore degli uomini e delle donne della città; battendo, quasi carezzevole, sugli occhi da poco aperti, quegli occhi che non scoprono mai orizzonti nuovi, paesaggi nuovi, decorazioni nuove. Il mattino, quel mattino che si ripete eternamente, gioca un po’, tuttavia, a cambiare la faccia della città, quel sepolcro, quella cuccagna, quell’alveare …" ...more